Resta fermo

Non è complicato.
Ci hanno detto di stare a casa, per evitare che il bombardamento faccia crollare il servizio sanitario nazionale.

Sei un dipendente? Rompi le scatole al tuo datore di lavoro, mandagli il decreto dell’8 marzo. Resta a casa, stai buono, e non fare casini. Non ti muovere, non tornare a casa da mammà: ogni volta che ti muovi è un rischio in più che corri tu e fai correre soprattutto ai tuoi amici e congiunti che non corrono la maratona come te. Se c’è uno con l’asma, uno immunodepresso, una nonna che ormai è avanti con gli anni, sono soggetti a rischio: statti alla casa, rischi di più ad andarla a trovare la nonna che a non farlo. Non ci sono scuse, non c’è giustificazione: la paura non giustifica alcun comportamento anti-sociale, come quello di chi ha provato a “scappare” sabato sera da Milano e dal resto delle regioni del nord. Quelli sono i comportamenti che rischiano di far naufragare gli sforzi della sanità pubblica di far fronte all’aumento di pazienti che necessitano di cure.

Sei un datore di lavoro? Permetti ai tuoi dipendenti di usare le ferie se ne hanno, se possibile attivali in smartworking, non farli andare in ufficio. Mi dicono che ci sono molte aziende che si rifiutano di capire, soprattutto qua al nord dove il decreto dell’8 marzo dice chiaramente che dobbiamo stare a casa. Non è complicato: ci hanno detto di stare a casa, stiamo a casa. Altrimenti tra 2 giorni ci militarizzano e facciamo come in Cina. Perderemo fatturato, lo capisco benissimo: il mio lavoro dipende da budget che in queste occasioni vengono subito tagliati. Le aziende non investiranno in comunicazione, tra 6 mesi probabilmente il mio posto sarà a rischio: amen. Qui parliamo di altro.

Stiamo buoni, giochiamo a Risiko e a Destiny, tra 15 giorni se va tutto bene sarà tutto sotto controllo e staremo meglio tutti. Non è la fine del mondo, non è la peste bubbonica, è solo un virus: forza e coraggio. Questo è il momento nel quale veniamo messi alla prova come Paese: siamo capaci di rispettare le regole?

Un problema di informazione

Domenica sera sono tornato in Italia, dopo una settimana di viaggi in giro per l’Europa in cui mi sono occupato molto poco dei media italiani. Al mio arrivo, come faccio quando ricordo di farlo, ho chiamato i miei genitori per avvisarli che ero atterrato sano e salvo e stavo tornando a casa. Quando ho sentito mio padre abbiamo finito per litigare: a suo dire correvo un rischio molto serio, c’è una pericolosa epidemia in corso.

Le mie letture sul tema le ho fatte, non attingendo al classico paniere informativo italiano, e ho una percezione che ritengo equilibrata della questione: per lui, che si è abbeverato solo ai canali TV nazionali, invece siamo sull’orlo del disastro. 60 milioni di abitanti in Italia, due focolai che hanno fatto appena 250 contagiati (o poco di più), 7 morti che però pare fossero tutti pazienti affetti da altre patologie gravi. Per lui è pandemia.

Non si può minimizzare, certo: ma, a casa in smart working grazie alla disponibilità del mio giornale, mi sono reso conto guardando mezza giornata la TV italiana del perché mio padre l’altra sera sia andato su tutte le furie (e io lo stesso). Abbiamo una gravissima responsabilità, noi giornalisti, per come abbiamo gestito questa faccenda: e la responsabilità va su nella gerarchia fino ai direttori, visto che sono loro a dettare la linea a tutta la redazione. Mi domando a cosa servano, comunque, tutti quei balenghi corsi di aggiornamento e formazione che ci propinano: difronte a una situazione di questo tipo, la categoria ha dato prova di una grandissima dose di dilettantismo in materia di informazione su un tema critico.

PS: Con mio padre ci siamo chiariti. Poveraccio, non mi hai mai perdonato di tifare per la Juventus.

PS: A oggi i contagi hanno superato quota 300, 10 decessi – tutti pazienti in età avanzata e con altri tipi di patologie gravi già in essere.