Tutto quello che dovete sapere sulla next-gen di PlayStation e Xbox

Delle nuove console in uscita questo autunno, PlayStation 5 e Xbox Series X (con la sorellina minore Series S), sappiamo quanto segue: sono nuove.

Non abbiamo idea, a oggi, di come saranno realmente le performance e le qualità che decreteranno la vincitrice di una sull’altra: non sappiamo come sapranno esprimersi a lungo termine, lungo i 10 anni stimati di vita commerciale del prodotto, e non sappiamo neppure come si evolverà la questione davvero cruciale. Ovvero, le esclusive e i giochi disponibili per le due piattaforme: ieri Microsoft ha messo a segno un colpaccio comprandosi (per 7,5 miliardi di dollari) Bethesda, fino a oggi un tassello importante per Sony, vedremo cosa accadrà.

Questa generazione in ogni caso è destinata a consolidare il concetto di intrattenimento 4K nelle case dei consumatori: sicuro che nei prossimi 10 anni assisteremo all’avvento dell’8K e che i PC forse saranno in grado di portarci verso quella nuova frontiera, ma se state facendo paragoni tra PC e console si vede che non avete capito niente di come funziona questo mondo e il mondo della tecnologia in generale.

Detto questo, se non siete dei super-mega-iper-appassionati che devono avere tutto e subito, acquistare le console al Day1 non ha molto senso: meglio aspettare, così da chiarirci le idee sulle possibili prestazioni. Nel caso in cui, invece, non abbiate in casa una console e siate in cerca della soluzione migliore per fare un regalo di natale: io oggi direi Xbox Series S con abbonamento Game Pass, così avrete una console moderna (per storage e architettura), tutta digitale, con una buona risoluzione in uscita (2K) e un parco titoli abbastanza vasto da giocare.

Un po’ tutto quello che Stadia avrebbe dovuto essere e non è (ancora).

PS: Secondo me, esteticamente la Series X vince tutto. Ma è *enorme*.

La macchina di immuni ha un bug nel protocollo (ma niente panico)

Non è la prima volta che si parla dei rischi di vulnerabilità di un protocollo come Bluetooth, che non è nato per quello che oggi gli si chiede di fare con immuni. Un po’ la stessa cosa che è accaduta con le automobili, che solo oggi iniziano a essere progettate ed equipaggiate per gestire la sicurezza di sistemi digitali che potrebbero creare problemi alla guida se bucati da remoto: quando erano stati inseriti a bordo i primi chip non si immaginava che un giorno l’auto sarebbe stata perennemente connessa, è stato necessario cambiare mentalità e approccio per farvi fronte.

Dicevamo, il Bluetooth non è perfetto: in più, il protocollo Google-Apple è stato messo assieme in fretta e furia in poche settimane. Inevitabile qualche errore di gioventù.

Quello che va sempre precisato è che, come nel caso di quanto si sta discutendo in queste ore (e che non riguarda immuni in sé: bensì il protocollo su cui non ha controllo e che sfrutta per essere compatibile con il massimo numero possibile di smartphone), un bug o una vulnerabilità non richiedono necessariamente di buttare via il bambino con l’acqua sporca.

Lo spirito di una norma come il GDPR, che poi è quella che sovrintende la privacy e la cybersecurity da noi in Europa, non è tanto dare delle regole da seguire: bensì fornire delle linee guida su cui impostare il proprio approccio alla questione della sicurezza. Qual è il bilanciamento tra rischi e vantaggi di una certa tecnologia, di come si è progettato un database, di come si regola l’accesso a certi dati? Bisogna svolgere una sorta di esercizio che pesi pro e contro di una determinata soluzione: non ne esiste alcuna priva di rischi, quel che si può fare è minimizzarli.

Sfruttare il bug in questione, di cui si vociferava da un po’, imporrebbe una concatenazione di azioni davvero improbabile: tantissime antenne Bluetooth disposte ovunque, o seguire costantemente un individuo per monitorare cosa fa; un lavoro di ricostruzione dell’identità a partire dai codici pseudo-anonimi, la cui complessità è di per sé notevole ma che aumentando il numero di individui si complica ulteriormente; la possibilità di tradurre queste informazioni in informazioni utili da monetizzare/sfruttare, altra azione che non è immediata.

Banalmente, gli unici che avrebbero gli strumenti e le risorse per mettere in pratica questo tipo di attività di tracciamento massiva sarebbero i Governi: che però volendo hanno mezzi più semplici per farlo. Dico per dire, basterebbe usare il GSM (la connessione dei nostri smartphone, infrastruttura già capillare e funzionante) per tracciare in modo molto più preciso ed efficace i cittadini: senza dover neppure preoccuparsi di risalirne all’identità, visto che sono già perfettamente identificati in quel caso. Per un attaccante privato sarebbe molto più semplice, ed economico, aggirare il problema facendo installare (con l’inganno) un trojan su uno smartphone: un cavallo di troia che scavalchi codici e pseudo-anonimizzazione e vada direttamente a captare informazioni più preziose e direttamente sfruttabili.

Il resto è materia da azzeccagarbugli e da complottisti.

Un’altra Huawei, dopo Huawei

Qualche sera fa, a cena, si discuteva di tecnologia con colleghi giornalisti (sì, tanto per cambiare). Qualcuno ha sollevato la questione “chi sarà la prossima Huawei?”.

La mia risposta a questa domanda è stata, semplificando, che non ci sarà un’altra Huawei dopo Huawei: l’azienda cinese ha investito pesantemente in R&D per mettersi in testa al mercato 5G, delle infrastrutture e dei device consumer, e ora sta lavorando anche per il settore enterprise e delle smart infrastructure. Lo ha fatto e continua a farlo: i risultati le danno ragione, in termini di market share e fatturato.

Parlare di vantaggio competitivo in termini di anni, mesi, giorni o settimane è forse una sciocchezza. C’è qualcosa però che vale la pena sottolineare, ovvero che il mondo della tecnologia e in particolare quello delle telecomunicazioni è fatto di brevetti incrociati e licenze FRAND: visto il gran numero di brevetti che Huawei possiede, e che i suoi concorrenti possiedono, non si può fare a meno di nessuno se si vuol fare sul serio nella costruzione di una rete 5G. E una rete 5G serve, a chiunque voglia contare nel futuro: su questa si costruiranno business, startup, servizi.

C’è ovviamente sul piatto la questione del ban statunitense per Huawei: l’ipotesi bislacca di rivolgersi ai concorrenti, soltanto ai concorrenti, è impraticabile per un paio di questioni molto pratiche. La prima è che non esiste molta concorrenza nella fascia bassa del mercato, dove Huawei la fa storicamente da padrone e in cui conta un bel po’ anche in Nordamerica dove riveste un ruolo significativo per gli operatori rurali. La seconda è che la concorrenza si sta assottigliando: dopo aver dovuto dire addio ad Alcatel e Lucent, che prima si sono fuse e poi sono state acquisite, ora pare che sia il turno di Nokia di avere qualche problema (forse proprio derivante dall’acquisizione di Alcatel-Lucent).

Come detto più volte per gli smartphone, però, meno concorrenza non è mai una buona notizia per nessuno. Speriamo che, presto, si ristabilisca una sana competizione in questo settore.

La bufala di San Valentino su YouTube

Gira questa fanfaluca sui social, oggi, secondo cui YouTube sarebbe stato fondato proprio il 14 febbraio perché all’inizio era un sito di dating.

È una balla clamorosa, e il racconto su come veramente è nato YouTube l’avevano fatto gli stessi fondatori al TIME qualche anno fa:

No company, of course, is ever founded in a single moment, and YouTube evolved over several months. Chad and Steve agree that Karim deserves credit for the early idea that became, in Steve’s words, “the original goal that we were working toward in the very beginning”: a video version of HOTorNOT.com HOTorNOT is a dating site that encourages you to rate, on a scale of 1 to 10, the attractiveness of potential mates. It’s a brutal, singles-bar version of MySpace, but Karim says it was a pioneer: “I was incredibly impressed with HOTorNOT, because it was the first time that someone had designed a website where anyone could upload content that everyone else could view. That was a new concept because up until that point, it was always the people who owned the website who would provide the content.”

The idea of a video version of HOTorNOT lasted only a couple of months. “It was too narrow,” says Chad. He notes that another early idea was to help people share videos for online auctions. But as the site went live in the spring of 2005, the founders realized that people were posting whatever videos they wanted. Many kids were linking to YouTube from their MySpace pages, and YouTube’s growth piggybacked on MySpace’s. (MySpace remains YouTube’s largest single source of U.S. traffic, according to Hitwise.) “In the end, we just sat back,” says Chad–and the free-for-all began. Within months–even before Lazy Sunday–investors such as Time Warner and Sequoia Capital, a Menlo Park investment firm, began to approach YouTube about buying in. Big advertisers started paying attention in October 2005, when a cool Nike ad-that-doesn’t-look-like-an-ad of the Brazilian soccer player Ronaldinho went viral in a big way on YouTube. Sequoia–which has helped finance Apple, Google and other valley greats–ended up providing about $8.5 million in 2005–just in time for Steve to avoid having to increase his credit-card limit yet again to pay for various tech expenses.

The YouTube Gurus (25 dicembre 2006)

Niente sito di incontri e amori, quindi: semplicemente l’ispirazione come spesso accade era partita da quanto i founder (che all’epoca erano molto giovani) conoscevano bene. E quello citato era tra i primi esempi di sito in grado di ospitare il cosiddetto user generated content.

Lo stato attuale dei dispositivi per la domotica fai-da-te

Dopo il singhiozzo di Xiaomi ho pensato di ricominciare da capo e migrare tutto su altri device di altro marchio. Ho anche una ragione pratica per farlo: nel mio appartamento ho mescolato lampadine tutte formalmente Xiaomi (Yeelight RGB, Yeelight bianco, Xiaomi-Philips), ma sono costretto a gestirle con due app diverse e per una serie di strani effetti combinati finisco per avere alcune lampade duplicate in Google Home.

Il problema è che non esiste ancora un’alternativa universale in termini di qualità, convenienza, praticità. O sei pronto a spendere tanti, ma davvero tanti euro e punti su un prodotto come le LiFX, oppure se ti butti su altro ti scontrerai sempre con qualche limite.

Un esempio di questi limiti: i sistemi di illuminazione come Philips o Ikea, che formalmente sono entrambi su protocollo ZigBee, richiedono un hub apposito (e proprietario) da acquistare e aggiungere al proprio impianto. Una complicazione, doppia nel caso di Ikea visto che è indispensabile anche un telecomando wireless (da acquistare) per poter configurare la prima volta le lampadine.

La morale della favola è che mi è subentrato lo sconforto: a meno che Google domani non lanci la propria linea di lampadine smart, non credo che cambierò nulla per ora.