Bandire una disciplina, qualsiasi, perché in 4 (o 5) si sono accaniti contro un ragazzo è una trovata puramente populista. Equivale a dire che andrebbe vietata la vendita di magliette nere, visto che ci sono dei soggetti che si vestono in un certo modo che professano idee politiche che (tra l’altro) da noi sarebbero anche incostituzionali.
Proibire è una pratica fascista.
Non risolve il problema culturale, non incide sulla questione sociale che c’è dietro quanto accade. Equivale a proibire i coltelli perché qualcuno, ieri, ha accoltellato qualcun altro: ma ci sono anche milioni di persone che ieri con un coltello hanno tagliato il formaggio. Magari i responsabili del pestaggio mortale avevano anche bevuto: nessuno parla di proibire gli alcolici, come mai? Mettersi a proibire è un lavoro infinito: proibita la pratica di questa arte marziale, chi vuole trovare un modo di fare del male al prossimo si dedicherà ad altro. Allora proibiremo anche altro, e così via: per sempre. E non avremo comunque risolto neppure una parte del problema.
Ragionare partendo dal particolare per arrivare al generale non è, quasi mai, un esercizio di logica: i sillogismi duri e puri li abbiamo abbandonati qualche secolo fa. Non è vero che chiunque pratichi le arti marziali, o una arte marziale in particolare, è violento. Non è vero neppure che la maggior parte dei praticanti di arti marziali, o di una in particolare, siano violenti. A volte, non sempre, le arti marziali sono invece strumento di recupero in comunità complicate: ci sono esempi mirabili in Italia, magari portati avanti da persone con idee politiche diverse dalle mie ma a cui riconosco un impegno sociale a dir poco mirabile.
Il nostro, vero, problema: scrivere per guadagnare like e clic, non per discutere e trovare insieme una soluzione.