Comma 22

Voglio migrare la mia fibra in rete rigida, ormai sempre più scarsa, alla nuova FTTH che è disponibile da qualche mese in cortile.

Vado sul sito di TIM, scelgo l’opzione per chi è già cliente, inizio la procedura.

A un certo punto dovrei cliccare su prosegui: lo faccio e non succede niente.

Vedete lì accanto la scritta “hai bisogno di aiuto?”: sì, ho bisogno di aiuto. Allora inserisco il mio numero, clicco, mi chiama immediatamente una molto gentile operatrice che mi chiede che tipo di problema io abbia. Quando glielo spiego mi blocca: “Signore, per questo tipo di problemi deve chiamare il 187”.

Volta la carta

Della vicenda tra Huawei contro gli Stati Uniti, o forse sarebbe meglio dire che sono gli Usa a essere contro Huawei, mi pare che due punti siano particolarmente significativi.

Il primo è relativo al fatto che una questione di politica internazionale vede schierata una nazione, una grande nazione democratica e liberale, contro un’azienda privata. Il Governo cinese fin qui è rimasto, credo giustamente, molto abbottonato sulla questione: è indubbio che dietro le quinte si stiano muovendo molte cose, ma è altrettanto vero che se la Cina si schierasse apertamente al fianco della sua azienda l’intera vicenda potrebbe arenarsi sullo stallo attuale.

La seconda questione, che ho già esposto in modo più o meno esplicito anche in qualche articolo, è che di fatto Google sta agendo per nome e per conto degli USA come un braccio esecutivo di un atto amministrativo di ispirazione politica.
Detto in altre parole: non esiste alcun motivo dimostrato per il quale Huawei costituisca un concreto pericolo per la “sicurezza nazionale” degli Stati Uniti, nessuno si è preso la briga di mostrare pubblicamente alcuna prova a sostegno di questa che più che una tesi è un’ipotesi.
Costringendo Google, e molte altre aziende, a interrompere i propri rapporti commerciali con Huawei si è prodotta una distorsione del mercato i cui effetti vanno a detrimento soprattutto dei consumatori europei.

In tutto questo, il braccio di ferro tra Trump e Pechino ha colpito un’azienda che fino a ieri era in lotta per il primato nel mondo degli smartphone, e che vantava un primato indiscusso in quello delle infrastrutture di rete. Colpirla serve a scombinare le carte soprattutto in quest’ultimo settore: Huawei ha sviluppato pezzi fondamentali del 5G, e gli USA si illudono che tagliarla fuori da quella corsa possa consentire loro di recuperare il terreno perduto.
Si illudono, appunto.

In ogni caso, a mio giudizio il punto più grave di tutta la faccenda è che siamo finiti a discutere di una questione che mi ha fatto tornare alla mente quanto accadeva negli anni ’80 con le licenze per processore: quelle che sono costate a Microsoft una condanna da parte dell’antitrust USA. Qualcuno, un privato, provò a sovvertire il mercato imponendo condizioni capestro ai produttori OEM: scoperto fu punito, ma a quel punto il dado era stato tratto per il mercato dei sistemi operativi desktop.

Quanto stiamo vivendo oggi è senza dubbio diverso: abbiamo visto sorgere e tramontare l’epoca di Symbian, iOS è sembrato poter fare piazza pulita di tutto ma poi è arrivato Android. Oggi certo la montagna da scalare è alta, ma Huawei ieri ha fatto capire che di fondi da investire in questa sfida ne ha (ha sfoderato 1 miliardo di dollari sull’unghia, buttato lì alla fine di un keynote tra i più surreali degli ultimi anni): in più non ha azionisti e Borsa a cui rendere conto. Infine ha come potenziali alleati tutte le altre aziende cinesi (Oppo, Xiaomi, Blu) che da un giorno all’altro si potrebbero trovare messe all’indice come già capitato a Huawei.

Secondo me in tutta questa vicenda non è stata scritta l’ultima parola.
Anzi.
E, paradossalmente, immaginate un mondo della tecnologia in cui la massa critica degli utenti cinesi e dei clienti Huawei sovverte il rapporto di forza e impone sul trono degli OS mobile HarmonyOS al posto di Android: a quel punto gli USA si ritroverebbero con un problema più grosso di quando hanno iniziato questa guerra. Con in mano al nemico cinese, un nemico più economico che politico (ma ha senso ormai fare questa distinzione?), sia la tecnologia dell’infrastruttura che quella dei device mobile.

Ufficio complicazioni affari semplici

Ho iniziato a usare Android 10 su diversi terminali, tra cui Pixel 3XL, Huawei P30 Pro (beta chiusa) e Oneplus 7 Pro (beta pubblica). Quindi lo sto usando “pulito”, pesantemente modificato come solo la EMUI sa fare, e molto smart come è di solito OxygenOS.

Quello che posso dire è che da qualche parte qualcuno si deve essere dimenticato che in tasca noi abbiamo qualcosa da usare al volo, un oggetto che deve essere (come diceva Steve) tutta Internet nel palmo della tua mano.

Invece quello che è successo con Android 10, figlio di questa crescente attenzione per la privacy e il controllo da parte dell’utente, è che il sistema continua a chiedermi ogni istante se voglio concedere accesso al GPS a quella determinata app sempre, solo quando la uso, mai, oppure segnalarmi che un’app consuma la batteria come prima faceva con la stessa insistenza solo la EMUI (anzi, nelle ultime versioni Huawei ha capito e l’ha resa meno invadente).

Ok, è bello avere il controllo.
Ma è difficile, se non impossibile, che l’utente medio capisca cosa sta facendo quando concede l’accesso al GPS solo a determinate condizioni a una specifica app. Pensateci: la casalinga di Voghera che dice all’app di navigazione sui mezzi pubblici “ok, solo quando ti uso!” e poi perde la fermata perché stava chattando su Facebook…

Mi fa piacere che ci sia un approccio più consapevole a come funziona il sistema operativo di uno smartphone: ma non si può derogare dal principio che deve essere lo sviluppatore a farsi carico della complessità, non riversarla addosso all’utente.

Per il resto Android 10 è molto gradevole, hanno migliorato molte cosine soprattutto per le notifiche. Ma è davvero noiosa questa sua continua ricerca di attenzione.

Quello che non c’è

Ci sono un paio di cose che andrebbero dette sul giornalismo, sul fare informazione in Rete, oggi. La prima è che la linea che delimita il concetto di “informazione” da quello di “comunicazione” si è fatta sempre più sottile: oggi è complicato per me, che ci sono dentro, distinguerlo – figuriamoci per chi non c’è dentro, ma sente comunque il bisogno di pontificare al riguardo.

La seconda è che non ci sono più i soldi per fare giornalismo.
Quello che non c’è sono i soldi. I capitali. Gli investitori. Gli unici introiti sono quelli derivanti dalla pubblicità, non troverete un benefattore che decida di fare l’editore in perdita. E la pubblicità tabellare, i banner, non funziona più da un pezzo: l’unica cosa che crei remunerazione tale da consentire di andare avanti sono i progetti speciali di comunicazione, semplice o integrata, che si spargono in giro per siti e social come una pozza d’acqua che si allarga sempre di più.

Ho avuto a che fare con molti interlocutori lato vendite nella mia vita: i peggiori di tutti erano quelli che volevano fare i furbi, e quindi niente distinzione tra quello che è pagato e quello che è farina del tuo sacco.
Una roba che quando ti beccano (non se, quando) perdi ogni credibilità.
E infatti.
Poi ci sono realtà, e al momento deo gratia sono in una così, in cui tutto deve essere sempre chiaro: e possibilmente evitiamo le zozzerie quelle che fanno solo casino. Non sempre ci si riesce, ma l’intenzione è sempre evitare il compromesso al ribasso.

Tutto questo per dire che: quelli che in questi giorni si stanno affannando a dire che cos’è giornalismo, che cos’è giornalismo d’inchiesta, che cos’è comunicazione, come si dovrebbe fare, nella stragrande maggioranza dei casi non sanno di cosa parlano e non hanno la minima idea di come funzioni questo mondo. Ora non voglio fare il Michele Apicella dei poveri, ma sarebbe buona pratica non parlare di cose che non conosci.

Peter Steiner sul New Yorker (1993)

Tanto più che per fare certi lavori, con un grado di credibilità e autorevolezza superiore a quella di un cactus, ci vuole tempo, persone, denaro, risorse. E ancora: il metodo Report, quello in cui si parte da una tesi precostituita e si fa di tutto per dimostrarla (pure piegando a proprio piacimento i riscontri) non è giornalismo e soprattutto non è giornalismo di inchiesta. È altro.

Dopo di che, se avete idee geniali per tenere in piedi un progetto di comunicazione e giornalismo, fatevi sotto. Però non stupitevi se qualcuno, il sottoscritto, vi risponderà “ah coso, guarda che ‘sta roba c’abbiamo già provato e non funziona”.