La macchina di immuni ha un bug nel protocollo (ma niente panico)

Non è la prima volta che si parla dei rischi di vulnerabilità di un protocollo come Bluetooth, che non è nato per quello che oggi gli si chiede di fare con immuni. Un po’ la stessa cosa che è accaduta con le automobili, che solo oggi iniziano a essere progettate ed equipaggiate per gestire la sicurezza di sistemi digitali che potrebbero creare problemi alla guida se bucati da remoto: quando erano stati inseriti a bordo i primi chip non si immaginava che un giorno l’auto sarebbe stata perennemente connessa, è stato necessario cambiare mentalità e approccio per farvi fronte.

Dicevamo, il Bluetooth non è perfetto: in più, il protocollo Google-Apple è stato messo assieme in fretta e furia in poche settimane. Inevitabile qualche errore di gioventù.

Quello che va sempre precisato è che, come nel caso di quanto si sta discutendo in queste ore (e che non riguarda immuni in sé: bensì il protocollo su cui non ha controllo e che sfrutta per essere compatibile con il massimo numero possibile di smartphone), un bug o una vulnerabilità non richiedono necessariamente di buttare via il bambino con l’acqua sporca.

Lo spirito di una norma come il GDPR, che poi è quella che sovrintende la privacy e la cybersecurity da noi in Europa, non è tanto dare delle regole da seguire: bensì fornire delle linee guida su cui impostare il proprio approccio alla questione della sicurezza. Qual è il bilanciamento tra rischi e vantaggi di una certa tecnologia, di come si è progettato un database, di come si regola l’accesso a certi dati? Bisogna svolgere una sorta di esercizio che pesi pro e contro di una determinata soluzione: non ne esiste alcuna priva di rischi, quel che si può fare è minimizzarli.

Sfruttare il bug in questione, di cui si vociferava da un po’, imporrebbe una concatenazione di azioni davvero improbabile: tantissime antenne Bluetooth disposte ovunque, o seguire costantemente un individuo per monitorare cosa fa; un lavoro di ricostruzione dell’identità a partire dai codici pseudo-anonimi, la cui complessità è di per sé notevole ma che aumentando il numero di individui si complica ulteriormente; la possibilità di tradurre queste informazioni in informazioni utili da monetizzare/sfruttare, altra azione che non è immediata.

Banalmente, gli unici che avrebbero gli strumenti e le risorse per mettere in pratica questo tipo di attività di tracciamento massiva sarebbero i Governi: che però volendo hanno mezzi più semplici per farlo. Dico per dire, basterebbe usare il GSM (la connessione dei nostri smartphone, infrastruttura già capillare e funzionante) per tracciare in modo molto più preciso ed efficace i cittadini: senza dover neppure preoccuparsi di risalirne all’identità, visto che sono già perfettamente identificati in quel caso. Per un attaccante privato sarebbe molto più semplice, ed economico, aggirare il problema facendo installare (con l’inganno) un trojan su uno smartphone: un cavallo di troia che scavalchi codici e pseudo-anonimizzazione e vada direttamente a captare informazioni più preziose e direttamente sfruttabili.

Il resto è materia da azzeccagarbugli e da complottisti.

Epic Vs. Apple: una storia sempre più bellissima

Oggi vi racconto una storia bellissima, fatta di paradossi e di situazioni al limite dell’incredibile: una storia in cui la politica internazionale si incrocia con le diatribe tra due aziende private, con sullo sfondo le elezioni presidenziali USA.

Tutto parte da una mossa (neanche tanto) a sorpresa di Epic, che per chi non lo sapesse è anche quella dell’Unreal Engine, che piazza dentro il celeberrimo Fortnite un’opzione per pagare che scavalca i meccanismi imposti da Apple su App Store. Così facendo non dovrà girare il 30 per cento di quanto incassa a Cupertino: ma, ovviamente, passa 1 minuto prima che scatti la rappresaglia. Epic viene messa alla porta da Apple: non solo facendo fuori Fortnite dal marketplace, ma pure terminando l’account sviluppatore di Epic e dunque tagliandola fuori totalmente dalle piattaforme con la mela morsicata (con un effetto a cascata anche per tutti quelli che usano l’Unreal Engine).

A questo punto, Epic va in tribunale (era tutto già organizzato, figurarsi): Apple, dal canto suo, risponde a carta bollata con carta bollata. La storia, evidentemente, durerà ancora molto a lungo.

Ma facciamo un piccolo passo indietro.

Nelle ultime settimane un’altra vicenda ha tenuto ancora banco nel mondo della tecnologia: parliamo della fissazione degli USA, in particolare della amministrazione di Donald Trump, riguardo i cinesi che spierebbero gli americani a mezzo tecnologia. E così dopo Huawei e ZTE, nel mirino ci sono finite TikTok e WeChat. Mossa elettorale, ci sono le Presidenziali alle porte e Donald si deve mostrare forte se vuole ottenere altri 4 anni alla Casa Bianca.

Ora.

Sapete chi c’è dietro WeChat? Non preoccupatevi, ve lo dico io: c’è Tencent, una delle più grandi aziende asiatiche (e quindi del mondo) di tecnologia. Un colosso che, per darvi un’idea, potremmo paragonare a Google per il peso specifico che ha nel mondo digitale a Oriente. E Tencent possiede anche una bella fetta di Epic: una delle considerazioni fatte dopo quell’ennesima minaccia di ban da parte di Trump era stata, per l’appunto, il rischio che dentro il calderone ci finisse pure un blockbuster come Fortnite.

Torniamo alla nostra storia.

Mentre Epic e Apple si cannoneggiano in tribunale, Apple fa una mossa che ha il sapore del trolling: piazza in bella mostra sul proprio marketplace il principale concorrente di Fortnite, ovvero PUBG. Sempre di una battle royale si tratta, ma non la produce Epic.

Sapete di chi è PUBG? Di Tencent.

Quindi, siamo al paradosso di aver sponsorizzato un’app tutta cinese ai danni di un’altra app che è cinese solo in parte. Tutto questo mentre dalla Casa Bianca tuonano contro i rischi per la privacy e la sicurezza, a causa di questi vendor cinesi che passano le nostre informazioni al Governo di Pechino.

È o non è una storia bellissima?

PS: Lo so che il titolo contiene un errore, l’ho scritto apposta così!

paradox

La fine del retail?

A distanza di poche ore arrivano due notizie simili, ma non identiche, sulle sorti di due catene retail: Gamestop registra risultati pessimi durante le feste, Bose annuncia la chiusura dei suoi negozi in Europa e Nordamerica (e Giappone).

Entrambe le notizie sono legate alla crescita dell’e-commerce e al cambio di abitudini dei consumatori. Da un lato però probabilmente Gamestop ha fatto scelte errate nella gestione della sua strategia, dall’altro Bose ha azzeccato i prodotti ma deve fare i conti con una contrazione degli spazi che si può ritagliare nelle case dei consumatori.

Certo va sottolineato un dato: Gamestop e Bose sono in crisi nel retail, Apple continua ad andare a gonfie vele coi suoi Store.

Apple e la fine della parabola

Here’s to the crazy ones (1997)

Think different recitava il claim finale di uno spot celeberrimo lanciato da Steve Jobs nel 1997, quando la parabola che avrebbe portato Apple in cima al mondo (si combatte stabilmente la prima posizione della classifica delle aziende più capitalizzate del mondo con Microsoft e Google) era al principio. La comunicazione di Apple è sempre stata speciale: mi ricordo i poster proprio di quella campagna affissi sui muri del negozio dove acquistammo l’iMac azzurro bondi che ancora conservo sulla scrivania della mia vecchia stanza a casa di mamma.

Negli anni la comunicazione è stata parte integrante del prodotto Apple: la stessa nascita di Apple è stata innanzi tutto una questione di comunicazione, a cominciare dalla contrapposizione col gigante cattivo IBM (1984) fino al confronto con il mondo PC che ha fatto dell’ironia un’arma per rosicchiare quote di mercato al binomio WinTel (Hello! I’m a Mac). In un certo senso erano le differenze, a volte persino i limiti della piattaforma, a diventare un elemento di propaganda. Il punto più alto di questa parabola a mio avviso è racchiuso tra due momenti: il lancio di iPhone nel gennaio del 2007 e quello di MacBook Air un anno dopo.

Il lancio di iPhone (2007)
Il lancio di MacBook Air (2008)

A un certo punto tutti, ma proprio tutti, hanno guardato a Apple per capire cosa fare in termini di comunicazione. A un certo punto tutti, ma proprio tutti, hanno guardato a Apple anche per capire cosa fare in termini di tecnologia: a Cupertino hanno capito prima di ogni altro l’importanza di un ecosistema, di un legame software tra diverse piattaforme, la svolta mobile first di un mercato consumer che ha finito per contagiare anche il mercato enterprise.

Oggi questi momenti magici durati dal 1977 al 1984 (da Apple ][ a Macintosh), e dal 1997 al 2010 (da iMac a iPad), si sono esauriti. Per 20 anni la Mela è stata quanto di più moderno, affascinante, appassionante e accattivante ci fosse su piazza. Il colpo di coda di questo momento magico è stato il 2013, con una campagna natalizia memorabile e che ancora oggi, ogni volta che la rivedo, trovo commovente. Bissato nel 2014 (esiste anche una versione per la Cina di quest’ultima campagna).

Apple Christmas 2013
Apple Christmas 2014

Il motivo per cui ho raccontato per filo e per segno, e per video, questa galoppata di Apple nel corso di 40 anni è perché questa sera ho visto il nuovo spot natalizio firmato Mela Morsicata. È una brutta copia di quello del 2013, davvero brutta, e dice molto della capacità oggi di rinnovarsi a Cupertino: non stiamo parlando di una società incapace di fare prodotti all’altezza delle aspettative dei propri clienti (quella era la Apple alla vigilia del ritorno di Steve Jobs), bensì di una realtà che oggi non è più apparentemente capace di stare al passo con il proprio retaggio.

Questo lungo sproloquio è stato scritto sulla tastiera di un MacBook Pro, a mio avviso questa resta una piattaforma eccezionale per lavorare quando si parla di PC (per gli smartphone, secondo me, meglio guardare altrove): ma se vi dovessi indicare oggi il faro della creatività e della originalità nel settore, non punterei il dito verso Cupertino.

Oggi lo scettro non lo impugna nessuno: di certo non Elon Musk, non Google, non Microsoft che pure ha saputo riguadagnare posizioni importanti. Aspettiamo magari che, ancora una volta, Apple torni a stupirci: ma, e non è così banale come potrebbe suonare dirlo, affinché ciò avvenga forse c’è davvero bisogno di un altro Steve Jobs. Che, ricordiamolo, forse non ha inventato niente di niente: ma ha saputo racchiudere un’idea all’interno di policarbonato, silicio e vetro come pochi altri. Forse come nessun altro.