Google, Cina, Android, mappe, censura e tutto quanto

C’è un tormentone che gira ultimamente attorno ad Alphabet, ovvero Google, relativo a un presunto tentativo da parte dell’azienda di mettere a tacere ogni forma di dissenso interno. Difficile stabilire quale sia la verità: sicuramente a Mountain View si devono confrontare con la progressiva crescita che l’ha portata a diventare un’azienda da oltre 100.000 dipendenti, con tutti i problemi che la maxi-taglia si porta dietro, e niente solletica più un certo tipo di stampa come prendersela con quelli grandi grandi.

In questo articolo del Washington Post viene raccontata una storia relativa a un ex-dipendente che ha appena lasciato il Googleplex e si è lanciato in politica. I motivi della sua uscita, dice il pezzo, sono legati al progressivo irrigidimento di Google sui temi della diversity: in particolare si fa riferimento alla questione cinese, visto che il search più famoso del mondo ha provato in passato a stare in Cina alle condizioni del Governo locale ma ha finito per abbandonare quel terreno per via dei troppi compromessi necessari.

Il passaggio più interessante, comunque, è questo:

Within a year, however, LaJeunesse said he was approached by the Maps team about launching in China. New plans to reenter the market, which seemed to be introduced every year, were largely driven by fears around losing control of Android, Google’s open-source mobile operating system. Without agreeing to China’s demands for censorship and access to user data, Google could not launch an app store or operate an official version of Android with demands that Chinese phone manufacturers give apps like Google Search space on the home screen. As Google’s go-to policy guy for China, LaJeunesse interceded when proposals raised concerns, such as Project Sidewinder, an app store for Android phones in China.
But for Google, the debate around China was also existential. The Chinese market represents not just Google’s best chance at another billion users, but also the future of innovation, talent and artificial intelligence.

A top Google exec pushed the company to commit to human rights. Then Google pushed him out, he says.
Wikipedia

La Cina, così come l’India anche se in misura minore, è un terreno di caccia per tutti. E Google, secondo quanto riporta il WP, pensa a una delle sue app di maggior successo (Maps) per usarla come testa di ponte e andare alla conquista di un mercato così importante.

Quando Trump ha deciso che Huawei era il nemico pubblico numero uno, forse, non aveva considerato due fattori. Il primo è che oggi gli Stati Uniti non possono più pensare a un’autarchia tecnologica: per sviluppare e implementare la rete 5G, così come per produrre chip e device, non possono fare a meno dei brevetti, della tecnologia, della manifattura cinese. L’altro aspetto, forse ancora più significativo, è che la Cina è un mercato di cui non si può fare a meno: ci sono milioni e milioni di consumatori che possono trasformarsi in miliardi di fatturato, e starne fuori significa lasciar spazio ai concorrenti per consolidarsi in quella geografia.

Anzi, la spinta ricevuta da Huawei in seguito al bando sta già producendo effetti in tal senso. È anche per questo che la famosa licenza in sospeso è meglio che si sbrighi ad arrivare.

Il problema del giornalismo italiano col genere, riassunto in una immagine