Huawei in UK, la parola a Boris Johnson

Gli Stati Uniti portano avanti la loro guerra santa contro Huawei, costituita essenzialmente da sospetti per i quali manca qualsiasi prova. Riassumendo, potremmo sintetizzare così la questione: gli USA vanno in giro a dire che forse, in futuro, magari, Huawei potrebbe essere costretta dal Governo cinese a spiare per conto loro.

Si vede che gli USA sanno qualcosa che noi non sappiamo.
Chissà, magari parlano per esperienza.

Scherzi a parte, una dichiarazione del premier britannico Boris Johnson – contenuta in una intervista rilasciata alla BBC e ripresa sulle pagine del Guardian – chiude a mio avviso la questione una volta per tutte:

The British public deserve to have access to the best possible technology. We want to put in gigabit broadband for everybody. Now if people oppose one brand or another then they have to tell us what’s the alternative

Johnson: Huawei critics ‘must tell us what’s the alternative’

Wikipedia

A oggi non esiste ancora un’alternativa credibile, sotto vari aspetti, alla presenza dei device di Huawei nelle infrastrutture di telecomunicazioni. La verità è che gli Stati Uniti sono in ritardo sul 5G e pensano, si illudono, che rimandare possa tornargli comodo: nel frattempo l’Asia corre, e le tigri non resteranno certo ad aspettarci.

Come installare i GMS su Mate 30 Pro in 10 passi

(la recensione completa è su StartupItalia)

La sequenza per installare i Google Mobile Services (GMS) su Huawei Mate 30 Pro la trovi di seguito: ricorda, però, che stai operando al di fuori di ogni forma di garanzia e se mandi il tuo telefono a farsi benedire, o se ti ritrovi le tue foto caricate su Rotten, è perché hai deciso di operare a tuo rischio e pericolo una procedura non documentata e al limite della legalità. Se sei sicuro di quello che stai per fare, procedi.

  1. Rimuovi la SIM dal telefono (se l’hai già inserita)
  2. Ripristina il Mate 30 Pro alle condizioni di fabbrica (nota bene: perderai tutto quanto sul telefono): Impostazioni > Sistema e aggiornamenti > Esegui il reset del telefono
  3. Scarica questo archivio che contiene quanto serve per effettuare l’operazione: HuaweiMate30Pro_GoogleMobileServices .zip
  4. Estrai i file nell’archivio, e piazza le due cartelle risultanti su una chiavetta USB che potrai collegare alla porta USB del Mate 30 Pro (ti serve qualcosa tipo questa o questo: nota bene, non sono link referral e non ci guadagno nulla)
  5. Avvia il telefono, completa il setup iniziale evitando accuratamente di configurare la WiFi, avviare qualsiasi servizio, impostare PIN, password di sblocco, sblocco col viso o l’impronta digitale: il telefono deve restare rigorosamente offline (tutte le configurazioni del caso si possono fare dopo)
  6. Quando sei arrivato alla schermata home, inserisci la chiavetta USB nella porta del telefono e poi ripristina il backup contenuto nella cartella Huawei. Per farlo: Impostazioni > Sistema e aggiornamenti > Backup e ripristino > Backup dati > Memoria esterna > Memoria USB
  7. Sulla prima schermata utile troverai una nuova app con icona con una G colorata e una scritta in cinese: tap (clic, dillo come ti pare) e apri questa app. Il sistema chiede di concedere privilegi di amministrazione: accetta (attiva, consenti) e poi torna alla schermata home (non serve fare altro in quella app)
  8. Individua l’app Gestione file e procedi a installare i pacchetti relativi ai GMS dal 1 al 9: è una procedura che richiede un paio di tocchi per APK, ricordati di consentire l’installazione da fonti esterne e di effettuare un controllo dei file sorgenti. Per individuare i pacchetti dentro Gestione file: Unità USB > gms
  9. Completata l’installazione dei pacchetti collegati al WiFi, procedi sul Play Store e configura il tuo account Google
  10. Procedi a disinstallare l’app col nome cinese, smonta la chiavetta USB, completa la configurazione del telefono (inserisci la SIM, configura impronta, riconoscimento del viso ecc)

Complimenti, ora il tuo telefono è perfettamente integrato nel mondo Google. Al momento l’unica funzione che non è possibile attivare è quella relativa a Google Pay (Huawei Pay arriva a breve).

Google, Cina, Android, mappe, censura e tutto quanto

C’è un tormentone che gira ultimamente attorno ad Alphabet, ovvero Google, relativo a un presunto tentativo da parte dell’azienda di mettere a tacere ogni forma di dissenso interno. Difficile stabilire quale sia la verità: sicuramente a Mountain View si devono confrontare con la progressiva crescita che l’ha portata a diventare un’azienda da oltre 100.000 dipendenti, con tutti i problemi che la maxi-taglia si porta dietro, e niente solletica più un certo tipo di stampa come prendersela con quelli grandi grandi.

In questo articolo del Washington Post viene raccontata una storia relativa a un ex-dipendente che ha appena lasciato il Googleplex e si è lanciato in politica. I motivi della sua uscita, dice il pezzo, sono legati al progressivo irrigidimento di Google sui temi della diversity: in particolare si fa riferimento alla questione cinese, visto che il search più famoso del mondo ha provato in passato a stare in Cina alle condizioni del Governo locale ma ha finito per abbandonare quel terreno per via dei troppi compromessi necessari.

Il passaggio più interessante, comunque, è questo:

Within a year, however, LaJeunesse said he was approached by the Maps team about launching in China. New plans to reenter the market, which seemed to be introduced every year, were largely driven by fears around losing control of Android, Google’s open-source mobile operating system. Without agreeing to China’s demands for censorship and access to user data, Google could not launch an app store or operate an official version of Android with demands that Chinese phone manufacturers give apps like Google Search space on the home screen. As Google’s go-to policy guy for China, LaJeunesse interceded when proposals raised concerns, such as Project Sidewinder, an app store for Android phones in China.
But for Google, the debate around China was also existential. The Chinese market represents not just Google’s best chance at another billion users, but also the future of innovation, talent and artificial intelligence.

A top Google exec pushed the company to commit to human rights. Then Google pushed him out, he says.
Wikipedia

La Cina, così come l’India anche se in misura minore, è un terreno di caccia per tutti. E Google, secondo quanto riporta il WP, pensa a una delle sue app di maggior successo (Maps) per usarla come testa di ponte e andare alla conquista di un mercato così importante.

Quando Trump ha deciso che Huawei era il nemico pubblico numero uno, forse, non aveva considerato due fattori. Il primo è che oggi gli Stati Uniti non possono più pensare a un’autarchia tecnologica: per sviluppare e implementare la rete 5G, così come per produrre chip e device, non possono fare a meno dei brevetti, della tecnologia, della manifattura cinese. L’altro aspetto, forse ancora più significativo, è che la Cina è un mercato di cui non si può fare a meno: ci sono milioni e milioni di consumatori che possono trasformarsi in miliardi di fatturato, e starne fuori significa lasciar spazio ai concorrenti per consolidarsi in quella geografia.

Anzi, la spinta ricevuta da Huawei in seguito al bando sta già producendo effetti in tal senso. È anche per questo che la famosa licenza in sospeso è meglio che si sbrighi ad arrivare.

Hongmeng delle mie brame

Catherine Chen, vicepresidente di Huawei (una che in azienda conta abbastanza: è anche nel consiglio d’amministrazione) dice che Hongmeng OS non è per gli smartphone. Per quelli, Android è e resta la scelta primaria.

Ora.

Noi a Catherine crediamo, ovviamente.
Se dice così è a ragion veduta, e senz’altro Huawei ha allo studio anche un sistema operativo da embeddare in giro su IoT, device connessi e chi più ne ha più ne metta. Potrebbe anche essere funzionale al funzionamento di apparati di rete, su cui poi costruire applicazioni e servizi, o eventualmente offrire PaaS a telco e over-the-top.
Un sistema operativo siffatto deve essere snello, svelto, sicuro: da cui la necessità di farlo compatto, poche migliaia di righe di codice, senza troppi frizzi e lazzi.

Però.

Parliamoci chiaro, Catherine: devi dire così perché è giusto dire così. Non si pestano i piedi al tuo partner principale, Google, in un business da 100 milioni di terminali l’anno e 50 miliardi di dollari di fatturato.
Ma sappiamo tutti che ciascun grande vendor, da Oppo a Samsung, da Huawei a Xiaomi, nel segreto delle sue stanze coltiva l’idea di un proprio sistema operativo. È il sogno che Steve Jobs ha trasformato in realtà, che ha naturalmente delle conseguenze: nel caso di Apple è l’isolamento totale in una nicchia, che per ora non mostra crepe significative ma domani chissà.

Tutti vogliono il controllo completo sulla piattaforma: Samsung ci ha provato anche mettendo in vendita terminali Tizen, e sappiamo com’è andata. Huawei ci sta provando in modo più furbo: in Cina ha il suo store, che funziona, e pian piano sta mettendo in piedi anche delle alternative qua da noi. C’è App Gallery, c’è Huawei Video, c’è lo store dei temi, c’è lo storage e prossimamente ci sarà senz’altro qualche altro tassello che andrà al suo posto. A quel punto, magari con una bella iniezione di capitali per convincere grandi sviluppatori ad essere presenti nel suo store, tenterà la sortita: pur lasciando il Play Store a bordo, magari, ma offrendo delle offerte succulente (e sovvenzionate) un po’ come ha tentato di fare Amazon sul suo marketplace app per i Fire.

Funzionerà?
Oggi non so dirlo. Ma sono sicuro che, nonostante quello che dice Catherine Chen, nelle segrete stanze di Huawei a Shenzhen e Shanghai ci siano tecnici al lavoro per studiare la formula di un sistema operativo per smartphone (e tablet, e wearable) pronto per ogni evenienza.