Se dovessi scommettere su Twitter, su che fine farà, direi che non si mette bene. E non perché Musk sia riuscito a ottenere da un giudice un po’ di quei dati che dice di volere (per sfilarsi dall’accordo per comprare tutta la baracca a 44 miliardi di dollari), ma perché il danno d’immagine procurato alla società è enorme.
Non vedo, francamente, come possano pensare di andare avanti a lungo dopo queste batoste in serie. Se anche venisse confermato l’accordo e Musk dovesse pagare, il giorno dopo cosa accadrebbe?
Quindi, da qui a un anno?, resteremo in mano a due entità: da un lato Facebook+Instagram, dall’altra TikTok.
Qualche volta con alcuni colleghi ci fermiamo a chiacchierare di quanto oggi si chiama attivismo online. Il concetto è cambiato il maniera significativa nel corso degli anni, quando mi sono avvicinato io alla Rete era qualcosa di molto diverso. Essere attivisti online significava soprattutto battersi per diritti legati all’accessibilità, alla libertà d’espressione, alla libertà: gli esempi non sono mai mancati, da Aaron Swartz a The Pirate Bay, ciascuno con una storia diversa alle spalle e un’evoluzione differente della vicenda. Erano lotte che, spesso, rimanevano confinate al circolo più o meno allargato degli attivisti: oggi, direi per fortuna, non è più così.
L’agorà social
Oggi si è compiuta la profezia dell’agorà digitale: in Rete, soprattutto sui social, fluisce il dibattito e addirittura in alcuni casi si scrive l’agenda politica nazionale o mondiale. In Rete oggi si parla di tematiche molto importanti: come la violenza nei confronti delle donne, la discriminazione di intere popolazioni per il colore della loro pelle o la religione professata, il cambiamento climatico, la parità di salario tra i sessi, i diritti delle comunità LGBTQ+. Il dibattito si è fatto anche molto più intricato e complesso da seguire: è difficile riuscire a seguire la totalità delle piazze in cui avviene, dunque spesso e volentieri bisogna rifarsi alla curatela che alcuni attivisti operano su quelle stesse piattaforme. Io stesso mi affido ad alcuni di loro per riuscire a stare al passo.
Il problema è che, come è normale in una società in cui l’immagine è diventata un bene dal valore misurabile in euro o in dollari, a questi attivisti oggi si pone un’alternativa: continuare a perseguire i propri obiettivi legati ai valori che li hanno resi notabili, in modo disinteressato, oppure decidere di monetizzare questa popolarità e magari concretizzare alcune delle aspirazioni e ambizioni personali fino a poco fa relegate in un cassetto. Un libro, un disco, un fumetto, presentare una serata di un evento spettacolare: traguardi legittimi, ma che non sempre sono ottenuti seguendo lo stesso cursus honorum di chi li ha preceduti, prima che Internet diventasse la vetrina che è oggi per questa forma di attivismo.
Il risultato è che la popolarità raggiunta spesso non viene gestita in modo totalmente consapevole (non sto dicendo niente di particolarmente originale, ne sono consapevole) : smetti di perseguire un obiettivo alto, la conquista di un diritto o il superamento dell’ingiustizia, e inizi a occuparti di cose molto più terrene. Un contratto, una sponsorship, un libro: poi c’è da fare campagna e tour promozionale per quel libro e rischi di alienarti da quel dibattito e quel sanissimo tessuto sociale che ti ha reso ciò che sei. Senza che nessuno di loro si fermi a riflettere sul fatto che se un editore decide di pubblicargli un libro, quando magari per anni nessuno gliene ha dato la possibilità, non lo fa perché ritenga importante quella tematica o particolarmente valido il libro: quell’editore sta facendo un investimento da cui spera di trarre un guadagno, e lo fa appoggiandosi alla popolarità dell’attivista (sfruttando, gratis, la popolarità guadagnata dall’attivista che per anni ha perorato una causa: quindi, indirettamente sta sfruttando la causa).
Gilde a confronto
A questo si unisce un altro problema, evidente ormai a chiunque: come sempre accade si sono creati una sorta di “circoli degli attivisti”, vere e proprie gilde che si muovono in modo compatto e si supportano e sostengono a vicenda. Si promuovono, si citano, si frequentano: quando esce il libro di un membro della gilda tutti lo sostengono e lo spingono, lo riassumono, lo fotografano. Se uno di loro viene criticato o, peggio, attaccato da qualcuno esterno a questo circolo, allora scatta la difesa corporativa: repost, retweet a nastro in cui si bersaglia chi non ha capito, non ha compreso la portata della rivoluzione sociale che l’attivismo della gilda porta avanti.
Questo comportamento, però, espone a questi attivisti allo stesso problema di miopia che affligge qualunque altro integralista: è inebriante immaginare di essere i giusti in lotta contro i malvagi, pensare di detenere la verità assoluta, essere la minoranza che condurrà la rivoluzione che ribalterà l’establishment e imporrà un nuovo ordine. Però, come tutti gli integralisti, a volte si finisce per diventare più realisti del re: si finisce per confondere i valori sacrosanti per cui ci si batte, per cui si è iniziato a fare attivismo, con il proprio personal branding. Si smette di fare autocritica e si inizia a fare autopromozione, sempre e comunque.
Sto vedendo succedere cose poco edificanti attorno alla sentenza nel processo che ha visto due stelle del cinema accusarsi a vicenda di diffamazione, dopo che la loro relazione sentimentale era naufragata. Un processo che chiunque di noi dotato di un po’ di sale in zucca non avrebbe mai voluto fosse celebrato, che ha messo in luce soltanto quanto tossica sia stata la loro relazione negli anni: non si è parlato davvero di violenza, si è parlato di quanto due personaggi pubblici abbiano problemi personali e di quanto avrebbero bisogno di essere aiutati. Un processo che ha svilito le battaglie di migliaia e migliaia di attivisti che in questi anni si sono spesi e hanno lottato per porre all’attenzione dei media la violenza nei nuclei familiari che spesso, soprattutto, rende le donne vittime fisiche e morali di una società che per troppi anni ha ignorato il problema. Spenderci post, tweet, story non è un buon servizio per chi si occupa di questi temi: anche per criticare, anche per marcare la propria posizione, si sta solo sostenendo l’effetto Streisand su questa vicenda.
Attivismo patinato
Abbiamo un problema di attivismo da copertina: è un bubbone che sta per scoppiare, a breve succederà che qualcuno di questi attivisti diventati star finirà per farne una bella grossa e farà crollare il castello di carte. Non sto dicendo che non rispetto il loro ruolo e la loro figura, il valore che hanno per cercare di migliorare la società nel loro complesso: ma quando si attenua l’attenzione per la lotta e aumenta in modo smisurato quella rivolta al personaggio, allora arriva il momento di ammettere che abbiamo un problema.
Non dobbiamo dimenticarci che nel momento in cui un attivista decide di scommettere sulla propria carriera sui social, nel momento in cui un libro che scrive diventa una fonte di sostentamento, anche se continua a parlare degli stessi temi di cui ha parlato fino al giorno prima tutto quanto farà da lì in poi sarà parte di una strategia di marketing. Sgomiterà per acquisire visibilità perché è la benzina che tiene in moto la macchina della sua popolarità: parlerà di certi temi in un certo modo, che lo faccia in modo consapevole o meno, perché ciò gli garantirà un eco maggiore e farà crescere i suoi follower. Si innesca in quel momento un circolo vizioso in cui l’arroccarsi in quella difesa corporativa di cui parlavo sopra significa anche lottare per tenere il tema che cavalchiamo centrale nel dibattito: se quel tema sparisce dalla comunicazione cala la nostra appetibilità per la macchina dei media, la nostra carriera come attivista subirà un arresto o un rallentamento.
L’ultimo punto che voglio toccare è la responsabilità: molti di questi attivisti social sentono responsabilità zero rispetto agli altri attivisti che si battono, con meno successo e popolarità, per la stessa causa. Nel momento in cui personalizzano il dibattito, o fanno leva sull’idolatria che a volte li circonda, fanno dei danni a quella causa: chi è esterno a quel circolo, chi cerca di informarsi e trova queste figure di riferimento, si farà un’opinione sul valore di quel tema in base a ciò che vedrà in loro. L’attenzione si sposta dai fatti, dalla causa, alla persona e al personaggio. Non è bello da dire, ma purtroppo abbiamo ancora l’abitudine di giudicare un libro dalla copertina: e sono loro la copertina.
Le mie letture sul tema le ho fatte, non attingendo al classico paniere informativo italiano, e ho una percezione che ritengo equilibrata della questione: per lui, che si è abbeverato solo ai canali TV nazionali, invece siamo sull’orlo del disastro. 60 milioni di abitanti in Italia, due focolai che hanno fatto appena 250 contagiati (o poco di più), 7 morti che però pare fossero tutti pazienti affetti da altre patologie gravi.
Mi sembra evidente, col senno di poi, che quanto sostenevo fosse frutto di una informazione solo parziale su quanto stava accadendo: chi, d’altra parte, il 25 febbraio aveva capito fino in fondo la portata di quanto ci stavamo apprestando ad affrontare? Io di certo no.
Mi sembra altrettanto evidente, sempre col senno di poi, che oggi ci troviamo ad affrontare due principali problemi relativi alla gestione di quella che è senza dubbio una vera pandemia.
Il primo, forse il più grave, è la mancata comprensione di come tale pandemia si sviluppi e perduri: la leggerezza con la quale non vengono rispettate le indicazioni fornite dai tecnici e dagli scienziati sul distanziamento, l’igiene, le scelte da fare per condurre la nostra vita con modalità e impegni molto diversi che in passato. Io vivo recluso in casa, la cosa inizia a pesarmi dopo tanti mesi, ma vedo che attorno a me esiste una sorta di doppio standard: a parole tutti coscienziosi, nei fatti ci sono molti che non rinunciano alla passeggiata domenicale o a qualsiasi altra forma di svago che oggi sarebbe sconsigliabile. Badate bene, non è una questione di aver paura del virus: è questione di comprendere quale sia la portata che questo fenomeno ha avuto ieri, ha oggi e avrà domani sulla nostra società.
Qui si incardina il secondo problema. Il covid19 non è ebola (ci sarebbe da fare un paio di battute o considerazioni sul fatto che ciò sia un bene o un male), ma non è neppure la comune influenza: esattamente come l’influenza ci sono dei casi in cui è poco più di un disturbo (mal di testa, mal di ossa, anosmia ecc), ma anche altri in cui si trasforma in una pericolosa e a volte letale polmonite. Questi sono i casi che affollano gli ospedali: sono i casi che stanno mandando in malora il nostro intero servizio sanitario. Perché il sovraffollamento delle terapie intensive costringe i medici a interrompere altre terapie che pure potrebbero essere salvavita, ma hanno la “sfortuna” di ammazzare il paziente più lentamente e dunque le si rimanda al futuro prossimo sperando che non causino troppi danni nel frattempo. Stiamo parlando di cose apparentemente banali, come gli screening per la diagnosi precoce di alcune forme tumorali, che come potete facilmente immaginare a lungo andare potranno causare danni incalcolabili.
Tutta la questione si riduce a questo, a mio avviso, a ciò che questa pandemia sta cambiando nel nostro stile di vita. Ha messo in luce quanto sapevamo già: ovvero che non siamo andati molto oltre quel vecchio homo homini lupus che per ultimo Thomas Hobbes aveva usato per raccontare il suo Stato di Natura ormai più di 400 anni fa. La solidarietà non è un valore primario della nostra civiltà: non lo è quando decidiamo di ignorare le regole, non lo è quando non ci curiamo delle conseguenze delle nostre scelte (salvo quando poi tali conseguenze colpiscono un congiunto prossimo), non lo è quando in punta di diritto o di coltello cerchiamo di far valere le nostre questioni di lana caprina per giustificare il nostro voler essere contro a ogni costo.
Non è che la sopravvivenza degli esercizi commerciali non mi stia a cuore: ma non mi dimentico lo sprezzo con il quale alcune categorie hanno ignorato o bistrattato la cosa pubblica, chi ha evaso in modo sistematico le tasse, chi per anni (non tutti, sia chiaro: chi l’ha fatto però oggi se lo porta sulla coscienza, se ne ha una) ha spinto sempre più giù il fondo della fossa che ci siamo scavati. Oggi siamo tutti nella stessa situazione: se ti batti per restare aperto, ma questo comporta il crollo della fragile rete sanitaria che ci regge ancora in piedi come Paese, tra 6 mesi non avrai il problema di veder fallire la tua impresa. Semplicemente, non avrai più nessuno a cui vendere i tuoi prodotti.
Nel mio angolo di mondo l’ho visto succedere con immuni: se le sono inventate tutte per mettere i bastoni tra le ruote a qualcosa che poteva (e può ancora) dare una mano, che non è la sola e unica soluzione ma può essere parte di un disegno più ampio. Invece no: ti devono dimostrare sempre e comunque che sono più intelligenti di te, più furbi di te, più capaci di te, che ci vuole ben altro per risolvere il problema.
E poi, che peccato!, il paziente è morto: ma l’intervento è perfettamente riuscito.
Nelle ultime settimane praticamente tutti i blockbuster che attendevo con ansia di vedere al cinema sono stati rimandati di molti mesi: 007, Wonder Woman 1984, tutti i nuovi film della Marvel, e oggi è arrivata la notizia che Dune (il mio libro preferito, un regista che mi piace: dire che lo aspettavo ardentemente non rende l’idea) è stato addirittura posticipato a ottobre 2021. Praticamente 1 anno esatto, per un film (come 007, come Wonder Woman, come Black Widow ecc ecc) che era fatto e finito: per tutti era pure iniziata la promozione che ora, mi domando come, dovrà durare più a lungo del previsto.
Rimandare di un anno l’uscita di un film può avere senso per una serie di ragioni: ma farlo per via del Covid19, perché questo è il motivo che spinge oggi le produzioni a farlo, è una mossa che trovo poco ragionevole. Dire che Dune uscirà il 1 gennaio, il 1 agosto o il 1 ottobre è una scelta che ad oggi è del tutto arbitraria: non abbiamo alcuna idea di cosa succederà nei prossimi 12 giorni, figuriamoci nei prossimi 12 mesi. Ci stiamo confrontando con una questione, una pandemia, che non ha precedenti: non tanto sul piano sanitario, quanto soprattutto sul piano economico – visto che nei 100 anni trascorsi dall’ultima grande epidemia, la Spagnola, la nostra società si è evoluta in quel turbo-capitalismo iper-liberista globale che oggi conosciamo bene.
L’equazione scritta dai cineasti è dunque la seguente: l’unico titolo di rilievo uscito in sala è stato Tenet, che è andato discretamente bene considerato che in molti luoghi i cinema sono chiusi o sono accessibili a capienza ridotta, ma non così bene da ripianare i costi. Il rischio concreto è che non si riesca a rientrare neppure dei capitali investiti nella produzione – figurarsi farci del profitto.
Quindi, dicono i cineasti, rimandiamo l’uscita: una scelta che per loro è probabilmente gestibile ma che li costringerà a bloccare o posporre tutte le produzioni seguenti, a tenere “immobilizzati” capitali anche ingenti spesi per girare questi blockbuster di cui stiamo parlando, a rivedere (al ribasso) i budget dei prossimi film, e soprattutto che metterà probabilmente definitivamente in ginocchio un altro ramo dell’industria. Stiamo parlando delle sale cinematografiche, che già non se la passavano granché bene: questa pandemia gli sta assestando il colpo di grazia.
Facciamo un secondo una digressione.
Ho iniziato a interessarmi di diritti, finestre di distribuzione, copyright, drm e tutto quanto ruota attorno il mondo dei contenuti praticamente quando ho iniziato a fare il mio lavoro: il mio primo direttore, Paolo De Andreis, era super-attento e super-preparato su questi temi, e proprio su questi temi mi ha insegnato moltissimo su cosa significhi cercare di avere una visione ampia e di scenario rispetto a un determinato argomento.
Dicevo, dunque, che ne mastico un po’ da anni. Negli anni ho sviluppato un mio personale punto di vista su cosa servirebbe a questo mondo, in particolare quello dei contenuti audiovisivi, anche sulla base di quanto è successo al mondo della musica: senz’altro il parallelo è un po’ forzato, ma può servire a spiegare la dinamica di quanto può succedere e in parte sta già succedendo nel mondo del cinema – inteso come le grandi produzioni di Hollywood, e di riflesso su chi possiede le sale. Nel mio mondo ideale, ciascun titolo sarebbe dovuto uscire già da molto tempo contemporaneamente su ogni piattaforma: sarebbe stato solo il mio gusto e la mia preferenza a spingermi di volta in volta ad andare al cinema per godermi un film sul grande schermo, o restarmene comodamente a casa per guardarmelo in alta definizione coi miei amici magari dopo una bella cena.
Se si fosse proceduto a fare dei cambiamenti alle dinamiche di questo mercato, che era già da molti anni in profonda sofferenza, oggi staremmo parlando di una grande opportunità; se si fosse proceduto quando era possibile a far sparire dalla faccia della terra le assurde finestre di distribuzione che costringono i film a stare in sala, poi andare a noleggio, poi sulla pay-tv e poi finalmente entrare nei circuiti “ordinari”; se si fosse puntato sul digitale in modo consapevole, sviluppando piattaforme che avrebbero avuto il tempo di consolidarsi e di catturare le preferenze degli spettatori. Se si fosse fatto, i proprietari delle sale cinematografiche avrebbero potuto decidere con maggiore consapevolezza che fine far fare alle proprie strutture, come gestirle, quanto e come investire, in che direzione far andare la programmazione.
Nulla di tutto questo è stato fatto. L’unico esempio, concreto, in questa direzione è stato il lancio di Mulan – forzosamente piazzato su Disney+ anche per “sperimentare”. L’esperimento, per altro, è stato un successo: pensate a cosa sarebbe potuto essere con alle spalle un percorso sensato e robusto di marketing durato anni.
Certo, l’unica prospettiva ormai percorribile è quella del digitale nudo e crudo: non credo che le sale cinematografiche potranno digerire questi mesi di chiusure forzate, pochissime riapriranno. Molte saranno acquistate a prezzo di saldo, trasformate in tutt’altro o gestite d’ora in avanti con logiche che faranno fuori per sempre il cinema indipendente dal grande schermo. Questa situazione è destinata a tagliare definitivamente le gambe alle sale, e taglierà fuori dal mercato anche i vari distributori intermediari che storicamente hanno pure divorato una certa fetta dei guadagni del botteghino (qui nasce l’unica opportunità di vedere ancora sullo schermo produzioni dal budget gigantesco, i guadagni finiranno tutti nelle tasche delle major), e creerà parecchi grattacapi anche a chi fa cinema che non è made-in-Hollywood.
Il cinema, inteso come settima arte ma pure come luogo dove andavamo ad assistere alla magia della fantasia, non sarà mai più lo stesso.