La situazione è la seguente: alcuni servizi di smart-home Xiaomi, in particolare quelli che fanno capo alla app Xiaomi Home, da ieri sera non funzionano più nel mondo Google Home.
UPDATE 05/01/2020: Tutto rientrato, ora tutto funziona di nuovo. Evidentemente Xiaomi è stata rapida e ha fornito a Google le risposte giuste.
Quello che è successo è che un utente si è ritrovato sul monitor del suo Nest Hub immagini provenienti da una ip-cam non sua: come sia stato possibile non si sa, l’unica cosa che mi viene in mente è che per qualche motivo la sua ip-cam (comprata su aliexpress) fosse in qualche modo abilitata a una serie di funzioni che possono far pensare alla presenza di una backdoor di qualche tipo – probabilmente messa lì per ragioni di debug e sviluppo. La spiegazione ufficiale di Xiaomi dice che si è trattato di un problema di cache (???). Google, a scanso equivoci, ha reciso il legame tra la sua piattaforma di domotica e quella di Xiaomi fino a data da destinarsi.
Sta di fatto che da ieri ho due stanze che non hanno più la luce smart, e non so se e quando queste lampadire torneranno a essere accessibili a mezzo voce attraverso i miei speaker Google. In più ho anche io una ip-cam Xiaomi: ora sono tentato di spegnerla.
PS: Le mie lampadine Yeelight, che sono sempre del mondo Xiaomi ma fanno capo a un’altra app, funzionano ancora correttamente.
Se non avete ancora visto The Mandalorian, fermatevi qui: quanto segue contiene spoiler. Se l’avete visto, o se degli spoiler non vi importa, continuate pure.
Nel corso del primo episodio della nuova serie prodotta da Disney, ambientata nell’universo di Star Wars, fa capolino uno dei personaggi digitali più riusciti della storia: uno Yoda picci, un Baby-Yoda, che ha fatto impazzire tantissimi appassionati del franchise ideato da George Lucas negli anni ’70.
Quello che succede è che, com’era prevedibile, il pubblico si riversi sugli e-commerce in cerca di merchandise a tema Baby Yoda: peccato che Disney abbia deciso di non produrre, ancora, alcun giocattolo relativo a Baby Yoda visto che, di fatto, costituisce uno spoiler della serie. E soprattutto che tale serie in alcune nazioni non andrà in onda prima di molti mesi (da noi Disney+ arriva a fine marzo 2020). Mancando pupazzi, statuette o qualsiasi altro gadget ufficiale, la creatività degli appassionata si è scatenata e ha dato vita a delle alternative.
È il caso dello schema amigurumi “The Child” sviluppato da Allison Hoffman e messo in vendita su Ravelry. Ve lo dico avendone visto le foto: è spettacolare. Un lavoro eccezionale di una mente brillante con un talento e una pratica enorme, tale da permetterle di mettere a punto in poche ore un ottimo schema con un risultato finale davvero molto somigliante al personaggio originale. Testa bassa e pedalare, senza scorciatoie.
Il successo travolgente di Allison ha attirato l’attenzione della Disney. Così l’azienda di Topolino le ha fatto una telefonatina che potremmo riassumere in: Yoda è mio e lo gestisco io.
Disney ha ragione: detiene i diritti su tutti i personaggi dell’universo Star Wars, dunque nessuno può usarli senza autorizzazione. Allison ha rimosso lo schema dal sito e ora non vende più alcunché legato a Baby Yoda. Qualcun altro, vista l’aria che tira, ha iniziato spontaneamente a rimuovere le GIF di Baby Yoda dalla circolazione, onde evitare di ricevere telefonate da parte degli avvocati Disney.
La questione tra Hoffman e gli avvocati Disney c’è da giurarsi si evolverà, anche se probabilmente non ci saranno conseguenze particolari per lei visto che si è mostrata disponibile a collaborare: ma quanto accaduto è senz’altro esemplificativo di una questione assai complessa. Uno schema amigurumi, che dubito Disney offrirà mai agli appassionati, è da considerarsi un prodotto originale, o un mashup trasformativo, a tutti gli effetti rientrante nelle eccezioni della legge sul copyright? Probabilmente no. Certo questo limita la possibilità creativa degli appassionati, che al massimo possono provare a restare in un’area grigia del diritto cedendo gratuitamente il frutto del loro ingegno.
La vera beffa, come racconta Fiberly, è che ci sono in giro molti altri schemi amigurumi di Baby Yoda regolarmente in vendita. Anzi, in alcuni casi si tratta dello schema di Allison che viene “piratato” da altri.
Think different recitava il claim finale di uno spot celeberrimo lanciato da Steve Jobs nel 1997, quando la parabola che avrebbe portato Apple in cima al mondo (si combatte stabilmente la prima posizione della classifica delle aziende più capitalizzate del mondo con Microsoft e Google) era al principio. La comunicazione di Apple è sempre stata speciale: mi ricordo i poster proprio di quella campagna affissi sui muri del negozio dove acquistammo l’iMac azzurro bondi che ancora conservo sulla scrivania della mia vecchia stanza a casa di mamma.
Negli anni la comunicazione è stata parte integrante del prodotto Apple: la stessa nascita di Apple è stata innanzi tutto una questione di comunicazione, a cominciare dalla contrapposizione col gigante cattivo IBM (1984) fino al confronto con il mondo PC che ha fatto dell’ironia un’arma per rosicchiare quote di mercato al binomio WinTel (Hello! I’m a Mac). In un certo senso erano le differenze, a volte persino i limiti della piattaforma, a diventare un elemento di propaganda. Il punto più alto di questa parabola a mio avviso è racchiuso tra due momenti: il lancio di iPhone nel gennaio del 2007 e quello di MacBook Air un anno dopo.
A un certo punto tutti, ma proprio tutti, hanno guardato a Apple per capire cosa fare in termini di comunicazione. A un certo punto tutti, ma proprio tutti, hanno guardato a Apple anche per capire cosa fare in termini di tecnologia: a Cupertino hanno capito prima di ogni altro l’importanza di un ecosistema, di un legame software tra diverse piattaforme, la svolta mobile first di un mercato consumer che ha finito per contagiare anche il mercato enterprise.
Oggi questi momenti magici durati dal 1977 al 1984 (da Apple ][ a Macintosh), e dal 1997 al 2010 (da iMac a iPad), si sono esauriti. Per 20 anni la Mela è stata quanto di più moderno, affascinante, appassionante e accattivante ci fosse su piazza. Il colpo di coda di questo momento magico è stato il 2013, con una campagna natalizia memorabile e che ancora oggi, ogni volta che la rivedo, trovo commovente. Bissato nel 2014 (esiste anche una versione per la Cina di quest’ultima campagna).
Il motivo per cui ho raccontato per filo e per segno, e per video, questa galoppata di Apple nel corso di 40 anni è perché questa sera ho visto il nuovo spot natalizio firmato Mela Morsicata. È una brutta copia di quello del 2013, davvero brutta, e dice molto della capacità oggi di rinnovarsi a Cupertino: non stiamo parlando di una società incapace di fare prodotti all’altezza delle aspettative dei propri clienti (quella era la Apple alla vigilia del ritorno di Steve Jobs), bensì di una realtà che oggi non è più apparentemente capace di stare al passo con il proprio retaggio.
Questo lungo sproloquio è stato scritto sulla tastiera di un MacBook Pro, a mio avviso questa resta una piattaforma eccezionale per lavorare quando si parla di PC (per gli smartphone, secondo me, meglio guardare altrove): ma se vi dovessi indicare oggi il faro della creatività e della originalità nel settore, non punterei il dito verso Cupertino.
Oggi lo scettro non lo impugna nessuno: di certo non Elon Musk, non Google, non Microsoft che pure ha saputo riguadagnare posizioni importanti. Aspettiamo magari che, ancora una volta, Apple torni a stupirci: ma, e non è così banale come potrebbe suonare dirlo, affinché ciò avvenga forse c’è davvero bisogno di un altro Steve Jobs. Che, ricordiamolo, forse non ha inventato niente di niente: ma ha saputo racchiudere un’idea all’interno di policarbonato, silicio e vetro come pochi altri. Forse come nessun altro.
L’intervento del celebre attore, sceneggiatore e regista non è un brutto intervento. A me i film di Sacha Baron Cohen sono piaciuti (quasi tutti, Bruno era moscetto) e gli riconosco il valore della sua satira sociale.
Quello che non condivido affatto di Sacha è il suo appello populista a rendere i social, e in generale i service provider direi (la distinzione non la fa, mi prendo la briga di estendere il concetto), responsabili per il contenuto pubblicato dagli utenti. È una scemenza colossale perché non dice come i social dovrebbero controllare la qualità dei contenuti inserita e pubblicata dagli utenti.
È possibile operare un controllo preventivo: costa, in termini economici e di personale impiegato, tantissimo. Più di quanto è ragionevole, anche considerando il fatto che stanno aumentando costantemente il numero di cittadini connessi e iscritti a queste piattaforme, e la quantità di materiale che pubblichiamo.
Sareste pronti ad aspettare 1 settimana, o 1 mese, per vedere i vostri contenuti approvati e pubblicati? Non credo. Si perderebbe anche il senso dei social media. L’alternativa sarebbe implementare un sistema automatico di filtraggio: ma programmato da chi? E con quali principi etici? Principi etici a stelle e strisce o europei?
L’alternativa è normare pesantemente il settore. In bocca al lupo. Mettiamo il caso che si riesca a mettere d’accordo i due lati dell’Atlantico, USA e UE normano in modo concorde: se la Cina, l’India e il resto del mondo non seguissero le stesse linee guida ci sarebbe solo da ridere.
Sacha non è animato da intenzioni sbagliate, ma è solo l’ennesima voce che arriva a parlare e sparare sentenze su temi di cui noi addetti ai lavori ci occupiamo da anni e anni e che non hanno soluzioni semplici. La proposta di Baron Cohen di lasciare ai politici eletti la decisione su come gestire questo mondo è miope: i politici eletti, per ragioni che sono anche corrette e che sono legate a come si scrivono le leggi, si muovono a un ritmo che non può essere quello di sviluppo della tecnologia.
Il discorso di Sacha Baron Cohen è molto eloquente. Ma è solo l’ennesima “random opionion” (così dice lui) gettata nel calderone di un dibattito tra sordi. Non è vero che siccome Google ha assunto i “best engineers in the world” può risolvere questo problema: è una banalizzazione davvero avvilente questa. Soprattutto, Baron Cohen probabilmente parla a una platea molto sensibile al concetto del giornalismo autorevole “vecchio stampo”: nessuna delle soluzioni da lui paventata risolverebbe però il problema di come tenere in vita il giornalismo.
Davvero, di un altro papa nero non sentivamo il bisogno.
Se vuoi Sky con il pacchetto completo ti costa circa 80 euro al mese.
DAZN se hai Sky da più di 3 anni è gratis, facciamo che non lo paghiamo.
Se vuoi Netflix col 4K sono 16 euro al mese.
Ti piace la musica? Spotify parte da 10 euro al mese, ma se hai una famiglia sono 15.
Poi c’è il nuovo AppleTV+, 5 euro al mese.
Disney+ arriva nel 2020, ma diciamo che se resta in linea coi prezzi USA saranno circa 7 euro.
HBO Max arriva nel 2020, non abbiamo idea del pricing ancora.
Prime Video di Amazon è compreso nel Prime per le spedizioni.
TIM Vision pure è compreso in alcune connessioni TIM, quindi mandiamola in cavalleria.
Ho dimenticato qualcosa? Già così siamo a 120 euro, arrotondando: a questo totale devi aggiungere pure il costo della fibra, facciamo 30 euro al mese. Totale: 150 euro al mese.
Ho sempre detto che quando mi sarei potuto permettere i contenuti li avrei pagati tutti, però così diventa complicato. Non sono ricco, non faccio il dentista (cit).