Moriremo di storytelling perché tutti pensano di sapere come si comunica. Perché tutti pensano di sapere come si fa giornalismo. Perché tutti pensano che in un modo o nell’altro, comunque vada, basta mettere le parole in fila e il risultato è lo stesso.
Ma non è così. Il registro con cui si comunica una notizia non è mai banale, e un giornalista serio (me lo ha insegnato il mio primo direttore) tiene il più possibile i fatti separati dalle opinioni. E se ha delle opinioni, le mette in fila in modo rigoroso e incontrovertibile: è una partita a scacchi contro sé stessi, bisogna imparare a prevedere da soli le obiezioni e le controargomentazioni. È un esercizio complesso, bisogna allenarsi per farlo con efficacia.
Il problema è che non tutti sono giornalisti, manco tutti quelli col tesserino. In molti, però, pensano di fare un lavoro che però è diverso da ciò che è davvero il giornalismo.
E quindi noi moriremo di storytelling: che non è giornalismo.
Una banca, non italiana (ma con molte sedi in Italia), mi chiede 1,5 euro per ogni operazione di pagamento. Niente di strano, è la norma: prendono 1,5 euro per ogni pagamento perché a loro dire non sono un cliente della loro banca. Allora mi sono letto bene la lettera, e dice che per i clienti della banca il costo per ogni pagamento è di 1,35 euro. Si vede che per loro un cliente vale 15 centesimi.
Detto questo, ho riletto due volte la lettera con cui mi informavano di questo “sovrapprezzo” e non riesco a capire: davvero. Perché ci vogliono 1,5 euro per inviare una richiesta elettronica alla mia banca, pochi byte di informazioni, e ricevere alcuni byte di risposta?
Le foto segnaletiche: anche se esposte nel corso di conferenze stampa tenute dalle forze dell´ordine o comunque acquisite lecitamente, tali fotografie non possono essere diffuse se non in vista del perseguimento delle specifiche finalità per le quali sono state originariamente raccolte (accertamento, prevenzione e repressione dei reati). Inoltre, anche nell´ipotesi di evidente e indiscutibile “necessità di giustizia o di polizia” alla diffusione di queste immagini, “il diritto alla riservatezza ed alla tutela della dignità personale va sempre tenuto nella massima considerazione”. Tali principi – più volte ricordati dal Garante – trovano conferma in diverse circolari emanate dalle forze di polizia, oltre ad essere richiamati, con riferimento alla generalità dei dati personali, nell´art. 25, comma 2 del Codice privacy.
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La possibilità di diffondere queste informazioni deve tuttavia fare i conti con alcune garanzie fondamentali riconosciute a tali soggetti. Il giornalista deve valutare, ad esempio, se sia opportuno rendere note le complete generalità di chi si trova interessato da un indagine ancora in fase assolutamente iniziale, e modulare il giudizio sull´entità dell´addebito.
[…]
Anche con riferimento ai nomi dei testimoni (e di persone che collaborano a vario titolo alle attività di giustizia) – e al di là dei limiti già previsti da disposizioni specifiche – prevalgono tendenzialmente ragioni di riservatezza. Pure in questo caso è difficile fare generalizzazioni, non potendosi escludere la possibilità di diffondere l´identità e altre informazioni concernenti un testimone quando tale conoscenza sia essenziale rispetto alla notizia pubblicata.
Attendiamo fiduciosi procedimenti dell’OdG nei riguardi di tutti coloro hanno deciso di infischiarsene delle prescrizioni deontologiche nel caso dell’omicidio del Carabiniere avvenuto a Roma.
Quindi in pratica Giggino ha scoperto che non ci si improvvisa politico, che è una cosa seria: che forse la storia del cursus honorum non era proprio campata in aria, visto che ha funzionato per circa 2.500 anni.
Catherine Chen, vicepresidente di Huawei (una che in azienda conta abbastanza: è anche nel consiglio d’amministrazione) dice che Hongmeng OS non è per gli smartphone. Per quelli, Android è e resta la scelta primaria.
Ora.
Noi a Catherine crediamo, ovviamente. Se dice così è a ragion veduta, e senz’altro Huawei ha allo studio anche un sistema operativo da embeddare in giro su IoT, device connessi e chi più ne ha più ne metta. Potrebbe anche essere funzionale al funzionamento di apparati di rete, su cui poi costruire applicazioni e servizi, o eventualmente offrire PaaS a telco e over-the-top. Un sistema operativo siffatto deve essere snello, svelto, sicuro: da cui la necessità di farlo compatto, poche migliaia di righe di codice, senza troppi frizzi e lazzi.
Però.
Parliamoci chiaro, Catherine: devi dire così perché è giusto dire così. Non si pestano i piedi al tuo partner principale, Google, in un business da 100 milioni di terminali l’anno e 50 miliardi di dollari di fatturato. Ma sappiamo tutti che ciascun grande vendor, da Oppo a Samsung, da Huawei a Xiaomi, nel segreto delle sue stanze coltiva l’idea di un proprio sistema operativo. È il sogno che Steve Jobs ha trasformato in realtà, che ha naturalmente delle conseguenze: nel caso di Apple è l’isolamento totale in una nicchia, che per ora non mostra crepe significative ma domani chissà.
Tutti vogliono il controllo completo sulla piattaforma: Samsung ci ha provato anche mettendo in vendita terminali Tizen, e sappiamo com’è andata. Huawei ci sta provando in modo più furbo: in Cina ha il suo store, che funziona, e pian piano sta mettendo in piedi anche delle alternative qua da noi. C’è App Gallery, c’è Huawei Video, c’è lo store dei temi, c’è lo storage e prossimamente ci sarà senz’altro qualche altro tassello che andrà al suo posto. A quel punto, magari con una bella iniezione di capitali per convincere grandi sviluppatori ad essere presenti nel suo store, tenterà la sortita: pur lasciando il Play Store a bordo, magari, ma offrendo delle offerte succulente (e sovvenzionate) un po’ come ha tentato di fare Amazon sul suo marketplace app per i Fire.
Funzionerà? Oggi non so dirlo. Ma sono sicuro che, nonostante quello che dice Catherine Chen, nelle segrete stanze di Huawei a Shenzhen e Shanghai ci siano tecnici al lavoro per studiare la formula di un sistema operativo per smartphone (e tablet, e wearable) pronto per ogni evenienza.