Come installare i GMS su Mate 30 Pro in 10 passi

(la recensione completa è su StartupItalia)

La sequenza per installare i Google Mobile Services (GMS) su Huawei Mate 30 Pro la trovi di seguito: ricorda, però, che stai operando al di fuori di ogni forma di garanzia e se mandi il tuo telefono a farsi benedire, o se ti ritrovi le tue foto caricate su Rotten, è perché hai deciso di operare a tuo rischio e pericolo una procedura non documentata e al limite della legalità. Se sei sicuro di quello che stai per fare, procedi.

  1. Rimuovi la SIM dal telefono (se l’hai già inserita)
  2. Ripristina il Mate 30 Pro alle condizioni di fabbrica (nota bene: perderai tutto quanto sul telefono): Impostazioni > Sistema e aggiornamenti > Esegui il reset del telefono
  3. Scarica questo archivio che contiene quanto serve per effettuare l’operazione: HuaweiMate30Pro_GoogleMobileServices .zip
  4. Estrai i file nell’archivio, e piazza le due cartelle risultanti su una chiavetta USB che potrai collegare alla porta USB del Mate 30 Pro (ti serve qualcosa tipo questa o questo: nota bene, non sono link referral e non ci guadagno nulla)
  5. Avvia il telefono, completa il setup iniziale evitando accuratamente di configurare la WiFi, avviare qualsiasi servizio, impostare PIN, password di sblocco, sblocco col viso o l’impronta digitale: il telefono deve restare rigorosamente offline (tutte le configurazioni del caso si possono fare dopo)
  6. Quando sei arrivato alla schermata home, inserisci la chiavetta USB nella porta del telefono e poi ripristina il backup contenuto nella cartella Huawei. Per farlo: Impostazioni > Sistema e aggiornamenti > Backup e ripristino > Backup dati > Memoria esterna > Memoria USB
  7. Sulla prima schermata utile troverai una nuova app con icona con una G colorata e una scritta in cinese: tap (clic, dillo come ti pare) e apri questa app. Il sistema chiede di concedere privilegi di amministrazione: accetta (attiva, consenti) e poi torna alla schermata home (non serve fare altro in quella app)
  8. Individua l’app Gestione file e procedi a installare i pacchetti relativi ai GMS dal 1 al 9: è una procedura che richiede un paio di tocchi per APK, ricordati di consentire l’installazione da fonti esterne e di effettuare un controllo dei file sorgenti. Per individuare i pacchetti dentro Gestione file: Unità USB > gms
  9. Completata l’installazione dei pacchetti collegati al WiFi, procedi sul Play Store e configura il tuo account Google
  10. Procedi a disinstallare l’app col nome cinese, smonta la chiavetta USB, completa la configurazione del telefono (inserisci la SIM, configura impronta, riconoscimento del viso ecc)

Complimenti, ora il tuo telefono è perfettamente integrato nel mondo Google. Al momento l’unica funzione che non è possibile attivare è quella relativa a Google Pay (Huawei Pay arriva a breve).

Lo stato attuale dei dispositivi per la domotica fai-da-te

Dopo il singhiozzo di Xiaomi ho pensato di ricominciare da capo e migrare tutto su altri device di altro marchio. Ho anche una ragione pratica per farlo: nel mio appartamento ho mescolato lampadine tutte formalmente Xiaomi (Yeelight RGB, Yeelight bianco, Xiaomi-Philips), ma sono costretto a gestirle con due app diverse e per una serie di strani effetti combinati finisco per avere alcune lampade duplicate in Google Home.

Il problema è che non esiste ancora un’alternativa universale in termini di qualità, convenienza, praticità. O sei pronto a spendere tanti, ma davvero tanti euro e punti su un prodotto come le LiFX, oppure se ti butti su altro ti scontrerai sempre con qualche limite.

Un esempio di questi limiti: i sistemi di illuminazione come Philips o Ikea, che formalmente sono entrambi su protocollo ZigBee, richiedono un hub apposito (e proprietario) da acquistare e aggiungere al proprio impianto. Una complicazione, doppia nel caso di Ikea visto che è indispensabile anche un telecomando wireless (da acquistare) per poter configurare la prima volta le lampadine.

La morale della favola è che mi è subentrato lo sconforto: a meno che Google domani non lanci la propria linea di lampadine smart, non credo che cambierò nulla per ora.

Password di stato: perché no (e perché SPID sì)

La polemica che ha infuriato in questi giorni, su un tema piuttosto complesso, è parsa a noi addetti ai lavori una polemica di retroguardia: sul tema dell’anonimato in Rete abbiamo discusso e dibattuto nell’arco temporale compreso tra il 1995 e il 2005. Poi, dopo quel momento, quello che dovevamo dirci ce lo eravamo detto: l’anonimato in Rete serve, è qui per restarci, ha moltissimi limiti nella pratica ma soprattutto non serve inventarsi per Internet regole diverse da quelle che ci sono già. Le leggi funzionano benissimo sia online che offline: non c’è differenza tra online e offline.

Detto questo, vediamo di ricordare almeno qualche ragione del perché l’anonimato in Rete serve.

1. Libertà d’espressione. Qualsiasi sia la vostra obiezione, io ribatto: Primavera Araba. Potrei aggiungere altro sui vari leak (Snowden ecc.), ma poi ci buttiamo sul controverso – almeno secondo qualcuno, non per quanto mi riguarda.

2. Sicurezza. Una sola e unica identità, qualsiasi sia il sistema di sicurezza adottato, è un rischio. Accentrare tutte le informazioni in un unico database significa che se violano quel database avranno i dati di tutti. Infine, gestire un servizio del genere significa molto in termini di affidabilità, resilienza, sicurezza, disponibilità: se pensi che lo Stato debba riprendersi la gestione di SPID e renderlo un servizio sempre più universale e pervasivo (in senso buono), devi mettere in condizione lo Stato di erogare un servizio che per qualità ricorda più Amazon che il sito del comune. A oggi il track record dell’Italia parla di tanti siti dei comuni e nemmeno un Amazon. In ogni caso se posso restare anonimo tranne quando voglio essere identificato, beh, tanto meglio: diminuiscono i rischi di seminare in giro dati preziosi.

3. Tecnocontrollo. Io non voglio che lo Stato possa sapere tutto quello che faccio: non tirate fuori la storia del “se non hai niente da nascondere”, è un’obiezione fascista. Voglio garantire la mia privacy, non voglio che tutte le mie azioni siano associate a un profilo pubblico: se voglio andare sul PornHub non voglio essere identificato con lo stesso profilo con cui accedo al mio cassetto previdenziale. Senza contare le ricadute possibili in termini di rischi che un privato si appropri di informazioni sensibili associate al mio profilo pubblico.

Patrick Hoesly

4. Libero mercato. Io non sono un sostenitore del capitalismo anarchico, ma è indubbio che la concorrenza e la pluralità dell’offerta siano uno stimolo importante per lo sviluppo e la crescita tecnologici. In questa prospettiva, un servizio che si ponga in concorrenza costruttiva con i privati e sia un modello di riferimento per la sicurezza, l’affidabilità e l’universalità può essere un agente positivo – ovviamente se non è obbligatorio.

Poiché il ministro Pisano non è l’ultima arrivata, bazzica il mondo di noi addetti ai lavori da un po’, mi aspetto che queste e altre argomentazioni le abbia sentite almeno una volta nel corso di qualche conversazione, convegno, conferenza. Credo altresì che sia una cosa buona che oggi abbiamo un Ministro per l’Innovazione, un ministro che si esponga per far sì che temi come quelli dell’identità digitale e dei diritti digitali arrivino alla ribalta dell’agenda politica. Un Paese che si preoccupa di come usare la tecnologia per migliorare i propri servizi è un Paese che pone il digitale tra le proprie priorità: e questo non può che fare felici gli addetti ai lavori, soprattutto se si prosegue sulla scia di quanto hanno iniziato a fare gli uomini e le donne del Team per la Trasformazione Digitale.

È stato dialetticamente un passo falso, inutile negarlo. Però non cominciamo il nostro solito tiro al piccione: ci serve un alleato nella stanza dei bottoni, ci serve per recuperare il tantissimo tempo perduto, e non abbiamo neppure più il tempo di stare a sindacare se questo alleato indossa la casacca di un colore o di un altro. Fino a quando farà le cose giuste, fino a quando ci darà le risposte giuste e ascolterà i nostri consigli, un alleato è un alleato: se tradirà le nostre aspettative vedremo cosa fare. Per ora mi pare che le intenzioni siano buone.

PS: Ho goduto come un matto a vedere la foto che gira del ministro Pisano durante il suo intervento a SIOS19. Solo non ho capito dove l’abbiano presa.

Perché la mia lampadina Xiaomi non funziona più con Google Home (UPDATE: ora vanno di nuovo)

La situazione è la seguente: alcuni servizi di smart-home Xiaomi, in particolare quelli che fanno capo alla app Xiaomi Home, da ieri sera non funzionano più nel mondo Google Home.

UPDATE 05/01/2020: Tutto rientrato, ora tutto funziona di nuovo. Evidentemente Xiaomi è stata rapida e ha fornito a Google le risposte giuste.

Quello che è successo è che un utente si è ritrovato sul monitor del suo Nest Hub immagini provenienti da una ip-cam non sua: come sia stato possibile non si sa, l’unica cosa che mi viene in mente è che per qualche motivo la sua ip-cam (comprata su aliexpress) fosse in qualche modo abilitata a una serie di funzioni che possono far pensare alla presenza di una backdoor di qualche tipo – probabilmente messa lì per ragioni di debug e sviluppo. La spiegazione ufficiale di Xiaomi dice che si è trattato di un problema di cache (???). Google, a scanso equivoci, ha reciso il legame tra la sua piattaforma di domotica e quella di Xiaomi fino a data da destinarsi.

Sta di fatto che da ieri ho due stanze che non hanno più la luce smart, e non so se e quando queste lampadire torneranno a essere accessibili a mezzo voce attraverso i miei speaker Google. In più ho anche io una ip-cam Xiaomi: ora sono tentato di spegnerla.

PS: Le mie lampadine Yeelight, che sono sempre del mondo Xiaomi ma fanno capo a un’altra app, funzionano ancora correttamente.

Google, Cina, Android, mappe, censura e tutto quanto

C’è un tormentone che gira ultimamente attorno ad Alphabet, ovvero Google, relativo a un presunto tentativo da parte dell’azienda di mettere a tacere ogni forma di dissenso interno. Difficile stabilire quale sia la verità: sicuramente a Mountain View si devono confrontare con la progressiva crescita che l’ha portata a diventare un’azienda da oltre 100.000 dipendenti, con tutti i problemi che la maxi-taglia si porta dietro, e niente solletica più un certo tipo di stampa come prendersela con quelli grandi grandi.

In questo articolo del Washington Post viene raccontata una storia relativa a un ex-dipendente che ha appena lasciato il Googleplex e si è lanciato in politica. I motivi della sua uscita, dice il pezzo, sono legati al progressivo irrigidimento di Google sui temi della diversity: in particolare si fa riferimento alla questione cinese, visto che il search più famoso del mondo ha provato in passato a stare in Cina alle condizioni del Governo locale ma ha finito per abbandonare quel terreno per via dei troppi compromessi necessari.

Il passaggio più interessante, comunque, è questo:

Within a year, however, LaJeunesse said he was approached by the Maps team about launching in China. New plans to reenter the market, which seemed to be introduced every year, were largely driven by fears around losing control of Android, Google’s open-source mobile operating system. Without agreeing to China’s demands for censorship and access to user data, Google could not launch an app store or operate an official version of Android with demands that Chinese phone manufacturers give apps like Google Search space on the home screen. As Google’s go-to policy guy for China, LaJeunesse interceded when proposals raised concerns, such as Project Sidewinder, an app store for Android phones in China.
But for Google, the debate around China was also existential. The Chinese market represents not just Google’s best chance at another billion users, but also the future of innovation, talent and artificial intelligence.

A top Google exec pushed the company to commit to human rights. Then Google pushed him out, he says.
Wikipedia

La Cina, così come l’India anche se in misura minore, è un terreno di caccia per tutti. E Google, secondo quanto riporta il WP, pensa a una delle sue app di maggior successo (Maps) per usarla come testa di ponte e andare alla conquista di un mercato così importante.

Quando Trump ha deciso che Huawei era il nemico pubblico numero uno, forse, non aveva considerato due fattori. Il primo è che oggi gli Stati Uniti non possono più pensare a un’autarchia tecnologica: per sviluppare e implementare la rete 5G, così come per produrre chip e device, non possono fare a meno dei brevetti, della tecnologia, della manifattura cinese. L’altro aspetto, forse ancora più significativo, è che la Cina è un mercato di cui non si può fare a meno: ci sono milioni e milioni di consumatori che possono trasformarsi in miliardi di fatturato, e starne fuori significa lasciar spazio ai concorrenti per consolidarsi in quella geografia.

Anzi, la spinta ricevuta da Huawei in seguito al bando sta già producendo effetti in tal senso. È anche per questo che la famosa licenza in sospeso è meglio che si sbrighi ad arrivare.